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Fallita la cura del diabete attraverso anticorpi monoclonali - Diabetescore
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La ricerca medica  nel 2009 si era orientata per la la cura del diabete attraverso anticorpi monoclonali come  avvenuto con effetti benefici  in altre malattie rare autoimmuni come la sindrome dell'opsoclono mioclono.
La sindrome opsoclonia-mioclonia-atassia (OMA) è un disturbo neurologico acquisito dell'infanzia che si manifesta secondariamente alla presenza di un neuroblastoma (sindrome paraneoplastica) o a una infezione virale, in tenera età.
L'incidenza è circa 0,2/1.000.000 di nuovi casi l'anno.
La diagnosi è basata sulla concomitanza dei tre seguenti criteri: opsoclonia (involontaria, movimenti rapidi degli occhi), atassia/mioclonia, disturbi comportamentali e del sonno, e presenza (eventuale) di neuroblastoma (un tumore benigno).
In comune con il diabete il fatto che trattasi entrambe di malattie autoimmuni.

Nel caso della sindrome opsoclonica accade che l'infezione colpisce per la prima volta il cervelletto, ossia quella parte del cervello che gestisce  i sensi motori, l'equilibrio e gli occhi facendoli ruotare per l'intera orbita in tutte le direzioni: ed infatti detta malattia è  altresì conosciuta come sindrome eye dancing.
La malattia, curata con cortisonici comporta la scomparsa temporanea degli effetti, bastando tuttavia un semplice raffreddore per far ripartire il sistema immunitario spingendo gli anticorpi ad aggredire nuovamente il  cervelletto (c.d. effetto memoria).
Questo avviene – in termini semplici - perché i marcatori (CD20) che gestiscono  questa parte del sistema immunitario conservano nella loro memoria l’infezione originaria, riscatenando gli anticorpi qualora si presenti una nuova infezione anche di tipo diverso: in pratica l'infezione originaria che colpi il cervelletto viene ritenuta ancora presente nel corpo da cui l'azione degli anticorpi nel riaggredire di nuovo l'infezione originaria.
Nel caso di questa sindrome si è avuta la fortuna di individuare il marcatore che gestisce l’intero meccanismo, appunto il CD20 e la terapia più recente - codifcata attraverso un protocollo internazionale - consiste nel somministrare detto anticorpo monoclonale anti CD20 (rituximab), con lo scopo di eliminare questi marcatori e nella speranza che i nuovi marcatori rinascono privi dell’effetto memoria.

In pratica si cerca di spegnere il ricordo della infezione originaria: è come se si formattasse una parte di un hard disk onde eliminare problematiche create da un virus       

Nel diabete si è ritenuto che il marcatore interessto fosse il CD3.

I risultati sono stati deludenti sia per otelixizumab, che per il teplizumab.

L'otelixizumab è un anticorpo monoclonale umanizzato diretto contro il CD3, un recettore dei linfociti T coinvolti nei normali processi cellulari di traduzione del segnale. In particolare, l’anticorpo si lega alla catena epsilon del recettore e agirebbe da un lato bloccando l’azione dei linfociti T citotossici che attaccano erroneamente e distruggono le cellule beta del pancreas produttrici di insulina, e dall’altro stimolando in contemporanea i linfociti T di regolazione, che invece proteggono contro il danno indotto dai linfociti T citotossici, preservando così la normale capacità delle beta cellule di secernere l’ormone.
Lo studio (chiamato DEFEND-1)  è stato un trial multicentrico internazionale, randomizzato e controllato con placebo, che ha coinvolto 272 pazienti di età compresa tra i 12 e i 45 anni, affetti da diabete di tipo 1 autoimmune di nuova diagnosi. Lo studio, al quale hanno partecipato più di 100 centri europei e nordamericani, era disegnato per valutare se l’anticorpo, somministrato mediante infusione endovenosa per 8 giorni consecutivi entro 90 giorni dalla prima diagnosi di diabete fosse in grado di offrire un beneficio.
I risultati hanno invece evidenziato che otelixizumab non è stato in grado di preservare la funzionalità delle beta-cellule pancreatiche, misurata in base alle variazioni dei livelli di peptide C (indicatore surrogato della quantità di insulina prodotta dall’organismo).
Sugli esiti negativi dello studio sono state le aziende che hanno condotto la sperimentazione (GlaxoSmithKline e Tolerx).

Ugualmente dicasi per il teplizumab, un farmaco sviluppato da Eli Lilly e MacroGenics con analogo meccanismo d’azione.
Conosciuto anche con la sigla MGA031, teplizumab è un anticorpo monoclonale umanizzato che si lega a un epitopo della catena ipsilon del CD3 dei linfociti maturi. Il suo ruolo consiste nella "protezione" delle beta-cellule ancora funzionanti di pazienti con diagnosi recente di diabete di tipo 1.
L'analisi dei dati a un anno di un precedente studio di fase III denominato Protégé ha evidenziato che il farmaco non si è dimostrato efficace nel rallentare la progressione della patologia in pazienti con diagnosi recente di diabete di tipo 1.
Gli endpoint principali dello studio Protégé, che non sono stati raggiunti dal farmaco, erano la riduzione dell'uso giornaliero di insulina e la riduzione dei livelli di HbA1c a 12 mesi.  Sulla base di questa analisi sono stati interrotti due studi, di fase  Ib e di fase III. Il primo valutava il farmaco somministrato per via sottocutanea e il secondo era simile allo studio Protégé.

Fonti
http://www.pharmastar.it/?cat=5&id=5206
http://www.pharmastar.it/index.html?cat=search&id=4469

In Italia specializzato per la sindorme OMA è l'ospedale Gaslini di Genova collegato a livello internazionale con reparti di neurologia Americani, Inglesi, Austriaci e Svedesi.